Con ogni probabilità dal 2021 ogni elettrodomestico, ogni nuovo modello di lavatrice, televisore, frigorifero, lavastoviglie, schermo, lampada, dovrà avere per almeno 7 anni (10 per le lavatrici) dalla messa in commercio i pezzi di ricambio disponibili, per garantire la loro riparabilità. Lo ha deciso il Consiglio dell’Unione europea, che sta revisionando i requisiti di ecodesign per questo gruppo di prodotti. Ora si attende solo il voto del Parlamento: poi le misure dovranno essere adottate da tutti i Paesi membri. Inoltre, i pezzi potranno essere sostituiti usando strumenti che sono normalmente a disposizione di chi fa le riparazioni, e non con attrezzi specifici per un singolo produttore.
Ma questa attesa decisione ha anche altre implicazioni. D’ora in poi i produttori dovranno tenerne conto in fase di progettazione, prevedendo un design che permetta di aprire e riparare gli oggetti (cosa oggi non più scontata), con l’obiettivo di allungarne la vita.
È ancora possibile firmare la petizione che proprio a questo obiettivo puntava, e che ha ottenuto già oltre centomila firme. Il diritto di poter riparare le cose è stato particolarmente ignorato nel nostro Paese, che ha ostacolato “alcune misure chiave del Pacchetto sull’Economia circolare”, adottate dalla Commissione europea “per aiutare le imprese e i consumatori europei a compiere la transizione verso un’economia più forte e più circolare, in cui le risorse siano utilizzate in modo più sostenibile”. Qualcosa di giusto, logico e importantissimo, ma che pareva l’Italia non fosse interessata a pretendere. Poi la petizione, lanciata da Donatella Pavan, fondatrice di Giacimenti Urbani, insieme a Restarters Milano, ha lanciato la raccolta firme a settembre 2018. “Il 5 dicembre l’abbiamo letta pubblicamente al ministero dell’Ambiente, ha dichiarato, nell’ambito della Settimana europea per la riduzione dei rifiuti, e l’abbiamo consegnata al ministro Sergio Costa perché la sostenesse”.
Del resto, un’inchiesta realizzata da Eurobarometer rivela che il 77% dei cittadini europei è a favore di prodotti più riparabili: come non esserlo? È qualcosa che permette di evitare spreco di denaro a tutti, mentre riduce di molto l’inquinamento. A livello globale, questo è l’anno in cui, secondo le stime, produrremo circa 50 milioni di tonnellate di rifiuti elettronici, l’equivalente di quasi mille Titanic.
Anche da noi la sensibilità aumenta. Dopo il recente incendio a Roma, la sindaca Virginia Raggi ha promesso l’apertura di un Repair Café (cosa sono i Repair Café? lo abbiamo spiegato in questo video) al posto dell’impianto di trattamento rifiuti andato in fumo. Di recente ne è stato aperto uno a Udine, mentre in tutta l’Italia per il momento siamo a 12, di cui 3 in Alto Adige. Ma ci sono anche realtà, come il Rusko di Bologna, che hanno preso ispirazione per poi chiamarsi in altro modo. I numeri spiegano bene che la situazione italiana dei Repair Café è ancora “embrionale”, ma l’iniziativa sta riscuotendo sempre più interesse. Chiunque sente parlare di RC trova l’idea geniale (perché lo è!) e valuta di aprirne uno. Beh, se ne avete la possibilità il Repair Caffè non è solo un modo per cambiare il mondo. I suoi obiettivi sono, certo, quello di riportare tra noi la bella arte di aggiustare, e di diffondere il suo know how. Ma anche di promuovere la coesione sociale, connettendo vicini di casa di diverse estrazioni sociali – tutti hanno qualcosa da riparare, prima o poi – con tutte le migliori conseguenze: condividere e inspirarsi, conoscersi, capirsi, farsi compagnia e tenere in allenamento la mente, imparando tecniche e gestualità che servono per aprire e maneggiare un meccanismo elettronico. Cosa di meglio, mentre si protegge il futuro del pianeta?
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